DNA fossile, lingua perfetta ed Internet
(autore: Roberto Arcangeli)


Tutti conosciamo Biancaneve e gli immancabili sette nani, ideati dai fratelli Grimm ed immortalati dalla matita di Walt Disney. Non altrettanto noto al grande pubblico è che Jacob, uno dei fratelli Grimm, era anche un illustre linguista che, nel 1822, enunciò la legge del "Lantverschiebung", cioè dello spostamento regolare dei suoni fra le varie lingue d'origine indoeuropea.

In base a tale legge, con un'operazione da Jurassic Park linguistico, nei decenni successivi i filologi sono riusciti a "ricostruire" ampi stralci dell'antica lingua indoeuropea, progenitrice ancestrale di quasi tutte le attuali lingue del continente. Conoscendo i meccanismi regolari con cui è avvenuta la divergenza progressiva delle varie lingue, si è stati in grado di ripercorrere il cammino inverso, andando indietro nei millenni. Un po' come in quelle immagini televisive proiettate a ritroso, dove i mille frammenti di un vaso che s'infrange a terra, anziché continuare a viaggiare in tutte le direzioni, convergono tutti verso un unico punto finquando, come per miracolo, il vaso ricompare nella sua perfetta integrità.

Grazie a questa operazione di ricostruzione del "DNA fossile", oggi conosciamo molte delle parole originarie indoeuropee da cui derivano i termini che miliardi di persone pronunciano ogni giorno.

Si è trattato di un grande studio filologico, sicuramente compiuto con una finalità ed uno spirito del tutto scientifici. Ciò nonostante, mi tenta l'idea di farlo confluire nell'alveo ben più ampio di quel comportamento della cultura occidentale, vecchio ormai di millenni, che assegna un valore negativo alla diversità linguistica, che sogna, studia e cerca affannosamente la "lingua perfetta", la "lingua delle origini", la "lingua pre-babelica".

Il concetto è questo: originariamente l'umanità era ingenua, libera, felice e parlava un'unica lingua (riecheggia qui il mito del "buon selvaggio" di Rousseau), poi ha iniziato a parlare lingue diverse, a creare barriere d'incomprensione e d'ostilità e da queste ne sono scaturiti tutti i mali e le tragedie che conosciamo. Se si riuscisse a tornare alle origini, alla lingua unica e perfetta, si risolverebbero automaticamente gran parte dei problemi del mondo.

Ad instaurare questo concetto comincia la Bibbia, col famoso racconto della Torre di Babele. Il paragone "Torre di Babele/Cacciata dal Paradiso" appare evidente. Come Adamo ed Eva, mossi dalla naturale curiosità umana, avevano voluto superare il loro stato di felice ingenuità assaggiando il frutto del Bene e del Male (e pertanto furono cacciati dal Paradiso), così i babilonesi vollero innalzare al cielo una torre che fosse simbolo del loro progresso e del loro potere. Il Dio biblico, che era piuttosto permaloso, lo prese come un gesto di lesa maestà e per punizione "condannò" gli uomini a parlare lingue diverse. Risultato: il cantiere fu abbandonato e la calcina solidificò nei secchi.

La diversità linguistica, quindi, è vista come punizione, come causa ed effetto della discordia umana. E il traduttore, di conseguenza, è visto come la persona che vive sfruttando il male rappresentato da tale diversità. Una figura necessaria, certo, ma negativa, sgradita, da relegare nell'ombra.

Col passare dei secoli, non v'è stato periodo nel quale non siano emersi eruditi pronti a dedicare energie e studi alla ricerca della lingua perfetta pre-babelica. Perfino Dante ritenne che alla base di tutte le lingue doveva esserci una grammatica universale, di origine addirittura divina, andata poi perduta nel cantiere abbandonato delle Torre di Babele. Comunque lui, da buon fiorentino pragmatico qual era, pensò bene di metterci una pietra sopra e scrivere in volgare, anche perché, tramite la sua Commedia, aveva due o tre cosette da rinfacciare ai maggiorenti della città che l'avevano costretto all'esilio e voleva che il messaggio fosse recepito da tutti, popolo compreso.

Molto più impegno nella costruzione della lingua perfetta l'aveva profuso un contemporaneo di Dante, il francescano spagnolo Ramón Llull (italianizzato in Raimondo Lullo), col suo ambizioso progetto di lingua universale denominato "Ars Magna". Lullo utilizzò 9 lettere per la sua lingua, alle quali corrispondevano 9 dignità divine o Principi Assoluti, 9 Principi Relativi, 9 Soggetti, 9 Questioni, 9 Virtù e 9 Vizi. Poi prese il tutto e si recò presso gli arabi per convertirli alla fede cristiana ed alla sua lingua perfetta fondata sulle combinazioni del numero 9. Gli arabi, per il resto molto dotati nelle scienze matematiche, non apprezzarono il tentativo e, nel 1316, lo lapidarono.

Nei secoli seguenti moltissimi altri personaggi furono attratti dall'argomento, tra cui grandi filosofi come Thomas Moore, René Descartes e G.W. Leibniz, ma quello che senza dubbio ha raccolto i maggiori successi è stato un oculista polacco di origine ebraica, Lejzer Ludovik Zamenhof, creatore dell'esperanto.

Nonostante che l'esperanto sia studiato e conosciuto da molte persone nel mondo, non è mai diventato quella lingua universale capace di portare con sé pace e fratellanza per tutti i popoli, come il suo inventore sperava.

Semmai è l'inglese che, sull'onda del dominio economico e culturale americano degli ultimi 50 anni, sta diventando una specie di passe-partout linguistico universale, facilitato in questo dai mezzi di comunicazione moderni che entrano ormai in ogni casa, in ogni cervello. Ma come è stato per il greco nel mondo omerico e per il latino nell'Impero Romano, si tratta di una lingua imposta per motivi economici, politici, militari, da sovrapporre alla "propria" lingua per facilità di comunicazione con i forestieri e col potere straniero. E anche laddove il latino si è radicato così profondamente da soppiantare la lingua originaria, il processo di differenziazione linguistica è immediatamente ricominciato non appena è venuto a mancare il potere centrale che era causa e supporto alla lingua imperiale. Difatti, la diaspora linguistica del latino ha generato il francese, l'italiano, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno, ecc.

Ma è proprio vero che la differenziazione delle lingue debba essere considerata una maledizione lanciata sul capo del genere umano, un peccato originale senza perdono, una tara ereditaria cui l'ingegneria genetica non può trovare rimedio? E il traduttore è proprio un male necessario che le moderne tecnologie devono rendere superfluo, scalzandolo da quel ruolo di traghettatore da una sponda all'altra della comprensione o da guardiano esclusivo di quella stretta porta che si apre nel muro dell'incomprensione?

Io non lo credo affatto. La diversità linguistica non è un'esclusiva umana. Gli etologi sanno bene che tutte le specie animali dotate di una forma di comunicazione vocale sufficientemente evoluta "parlano" lingue diverse, in base alle zone geografiche in cui sono stanziate o alle sottospecie cui appartengono.

È stata proprio questa considerazione a suggerirmi il valore darwinistico del linguaggio, inteso come potente strumento dell'evoluzione naturale. Non parliamo lingue e dialetti diversi per puro capriccio intellettuale o per un difetto congenito delle nostre strutture mentali. Lo facciamo perché l'ambiente sociale e naturale che circonda ognuno di noi, ogni gruppo umano piccolo o grande, muta continuamente. Pone costantemente nuove sfide, nuovi interrogativi, nuovi soggetti animati o inanimati da classificare, identificare, descrivere, nuove idee da diffondere, nuove esperienze da raccontare.

Tutto questo mutevole universo circostante dobbiamo "tradurlo" in parole (siamo quindi tutti traduttori, in senso lato) e poiché gli oggetti da descrivere mutano continuamente, altrettanto plastico ed inventivo dev'essere il nostro linguaggio, affinché lo strumento linguistico col quale riportiamo agli altri il mondo che ci circonda non diventi ben presto obsoleto e inadeguato. Si tratta di una forma di adattamento all'ambiente (non solo naturale, ma anche sociale, economico, psicologico, politico) paragonabile alle mutazioni genetiche, con la differenza che tutto accade mille volte più velocemente.

La capacità di adeguarsi all'ambiente, sia quello materiale sia quello immateriale, è stata la chiave di volta del successo evolutivo umano. La capacità di evolvere e modificare il proprio linguaggio è stato uno dei fattori basilari del nostro straordinario successo biologico.

Come sempre accade in natura, a fronte di un vantaggio c'è anche un prezzo da pagare. Se, ad esempio, l'aumento di capacità cranica che ha consentito all'umanità lo sviluppo di una intelligenza superiore è stato pagato dalla donna con un travaglio complicato ed una mortalità della partoriente infinitamente maggiore rispetto a quella delle femmine di tutte le altre specie di mammiferi, così il rapidissimo adeguamento della comunicazione orale e la complessa originalità di ogni lingua e dialetto sono stati pagati con la crescente difficoltà di capire gli "altri".

Certo, è frustrante non capire l'altro. Sicuramente genera moti di diffidenza, ostilità, arroganza nell'animo umano. Già gli antichi greci chiamavano barbari gli stranieri, per scimmiottare i loro linguaggi strani, ridotti ad un incomprensibile "ba...ba...ba" (da qui l'origine del termine). Da lì a considerarli dei sottosviluppati, dei sottouomini non dotati di un livello di civiltà paragonabile, il passo è stato breve. Non solo, è stato tragico.

Se i complessi e maestosi meccanismi dell'evoluzione hanno deciso che valesse la pena di pagare un prezzo così alto pur di avere la plasticità e l'adattabilità del linguaggio, significa che nel dare/avere della contabilità evolutiva i vantaggi superavano gli svantaggi.

Se si è stabilita nei secoli questa tendenza culturale a voler vedere solo la negatività dei diversi linguaggi, ostinandosi ad inseguire un'improbabile e chimerica lingua perfetta, è probabilmente perché rientra nella natura umana porre sempre più l'accento sui lati negativi delle cose che non su quelli positivi, esasperare le differenze trascurando le similitudini, vedere le caratteristiche di altre epoche sempre migliori rispetto all'epoca in cui si vive, un po' come la famosa erba del vicino che è sempre, irrimediabilmente più verde.

Per cui, anziché tentare di fabbricare lingue artificiali nella bottega dell'alchimista, la formula per esorcizzare l'incomprensione reciproca passa anche per un livello d'istruzione più elevato a disposizione di tutti, soprattutto dei bambini del terzo mondo. Un'istruzione che insegni a tutti i fondamenti di una o due lingue straniere, affinché tutti, su questo pianeta, possano comprendersi a vicenda, almeno a livello colloquiale. Internet, a questo proposito, si rivelerà un fattore fondamentale nei prossimi anni e decenni.

E per quanto riguarda i livelli più elevati di comunicazione (opere letterarie, testi scientifici, manuali tecnici, documenti giuridici, ecc.), ieri, come oggi e come anche domani, l'unica risposta adeguata è quella di affidarli alla sapiente arte del traduttore.